Camillo e l’albero di pane
Racconto di Natale (El Sauzal, 2019)
Camillo
Francesco e un piccolo uccellino
Era iniziato il mese di marzo e le giornate erano tanto tiepide che invitavano a passeggiare già dalle prime ore del mattino. Francesco si alzò presto e andò a controllare il livello dell’acqua del vascone, dall’altra parte del giardino. Mentre camminava si accorse che qualcosa si muoveva tra l’erba. Un piccolissimo uccellino stava lì senza riuscire a volare, sembrava morto di paura. Lo raccolse e me lo portò.
Camillo
Quando lo vidi, mi prese un accidente. Era piccolissimo, quasi senza piume e Francesco mi diceva di prendermene cura, di dargli da mangiare. E come? Ogni volta che mi aveva portato un uccellino… Morivano, tutti, nel giro di poco tempo. Gli risposi che non potevo, non me la sentivo proprio. Lui l’aveva raccolto, lui ne vedeva la fine. Sembra crudele, lo so. Ma l’idea di ritrovarmelo morto da un momento all’altro… Francesco invece mi incoraggiava dicendomi che ce l’avrebbe fatta. “Proviamoci almeno”.
Proviamoci.
Camillo
Ed ora che facciamo?
Si fa per dire: un plurale che si sarebbe trasformato in un Io ci devo provare.
Mi sentivo giù. Pensavo che entro due giorni, al massimo tre, mi sarei alzata una mattina e l’avrei trovato senza vita. Presi una scatola, delle stoffe morbide e lo misi lì. Gli scattai una foto e andai al negozio degli animali. Che uccellino era? Cosa dovevo dargli da mangiare?
Mi spiegarono che era un canarino e mi diedero una specie di farina che dovevo sciogliere in poca acqua. Mi dissero anche che non dovevo farmi troppe illusioni. Ecco! Proprio quello che mi ci voleva. Tornai a casa. Era ancora vivo e apriva il becco. Gli preparai da mangiare.
Camillo
Una idea formidabile
Decisi, non so nemmeno come mi venne quell’idea, di imboccarlo non con una siringa piccolina, ma con uno stuzzicadenti. Mangiava. Wow, eccome se mangiava. Dopo averlo nutrito, gli pulii il becco e lo rimisi nella scatola. In pratica, cominciai a nutrirlo ogni volta che apriva il becco per mangiare. Stavo ad osservarlo per capire come aiutarlo e gli parlavo. Pensai: se superiamo tre giorni, ce l’abbiamo fatta. Anche se ogni volta che uscivo di casa, pensavo di trovarlo morto, al ritorno. E la stessa cosa pensavo quando me ne andavo a dormire. Invece no! Quello aveva deciso proprio di vivere. Infatti, passarono tre giorni. Mangiava benissimo e poi se ne stava tranquillo. Pensai: se supera anche il quarto giorno, gli trovo un nome. E così il quinto giorno fu quello della ricerca di un nome. Ad essere sincera, già sapevo come chiamarlo. Nonostante le varie proposte, lo chiamai Camillo. Quel nome era perfetto per lui.
Camillo
E trascorrevano i giorni. Camillo aveva le piume, aveva imparato a volare e sapeva ciò che gli piaceva e ciò che non voleva. Non voleva stare in gabbia. Gli piaceva stare con noi, volare sulla nostra spalla. Soprattutto gli piaceva un vestito che usavo per casa, con stampe di piccoli fiori colorati. C’eravamo affezionati a Camillo. Cominciammo a farlo uscire. Stava sulla mia spalla, mentre passeggiavamo nel giardino. Lì tranquillo, senza muoversi. Decidemmo che per il giorno di Santa Chiara, lo avremmo lasciato libero. Il grande giardino poteva essere la sua casa con tutti quegli alberi. E noi avremmo potuto dargli da mangiare, se lo necessitava. In realtà, il giorno 11 agosto non se ne andò. Saltò sull’albero, cinguettò e poi tornò sulla mia spalla.
Camillo se ne va
Scelse il 15 agosto. Sì, il 15 agosto, dopo la solita passeggiata saltò sul solito alberello, cinguettò e improvvisamente spiccò il volo. Scomparve in un attimo.
Non riuscivamo a capire dove fosse finito. Lo chiamammo ma niente. Rientrammo in casa un po’ tristi. Lo sapevamo che doveva tornare ad essere libero, ma ci mancava. Come negarlo? Però, Camillo tornava ogni giorno. Sul solito albero. Fischiava, poi se ne andava. E, Francesco lo chiamava sempre: ogni volta che si fermava a potare le rose o a togliere le erbacce, a tagliare i rami o le grandi foglie secche delle palme. Camillo a volte veniva, a volte no. A volte sembrava lui, altre non lo era. Spesso si fermava sul davanzale della nostra finestra, della stanza dove dormivamo.
Camillo era libero
E noi, sempre a raccontare di Camillo. Sì, perché Camillo ce l’aveva fatta.
Arrivò dicembre. Ormai Camillo si vedeva meno. Eravamo un po’ preoccupati. Avrà cibo? Sarà vivo? Starà bene? Decidemmo così di cominciare a mettere delle briciole di pane, qua e là, nel giardino. Ma niente.
Allora decidemmo di esprimere un desiderio. I desideri a volte si avverano. Se Camillo era vissuto, anche il desiderio si avverava.
La notte santa e l’albero di Camillo
La notte santa, ritornati dalla messa, mettemmo briciole di pane su tutto l’albero. Sull’albero di Camillo. E quando la mattina di Natale ci alzammo e scendemmo per la colazione, trovammo l’albero pieno di uccellini. Non sapevamo se lì ci fosse anche Camillo. Per non spaventare gli uccellini, ci limitammo a guardare la scena dalla finestra della cucina.
Ancora oggi chiamiamo quell’albero, l’albero di Camillo, l’albero del pane.
Buona vita
Emily