Non si chiamava Rex: Racconto breve, 2009
Sin da piccolo era stato un po’ rompiscatole. È così che ormai pensavano tutti. Di quei rompiscatole esagerati. La sua vita era una esagerazione: le botte che aveva ricevuto, i piatti di pasta che la madre gli aveva preparato, i voti a scuola (esageratamente brutti!). Non parliamo poi delle toppe sui pantaloni. Se non fosse stato per la cerniera, nemmeno si capiva dove cominciavano i pantaloni e dove finivano le toppe.
Le parole del padre, esageratamente poche, esageratamente forti.
Suo padre, sempre gli aveva ripetuto fin da piccolo. “Ma che cazzo vuoi”.
Ora, non è difficile capire come e dove fosse cresciuto.
Prima degli otto anni, si era messo in testa di voler un cane. Se lo sognava anche la notte. Non c’era notte che non sognasse di correre con il suo cane, portarlo a spasso, fargli conoscere tutte le scorciatoie che aveva scovato da scuola a casa, i luoghi che di nascosto aveva esplorato, mangiare con lui.
Si sentiva troppo solo: a casa, nessuno gli rivolgeva la parola se non per il minimo indispensabile; a scuola, non aveva amici ed era ritenuto un ritardato. Gli era stata assegnata una insegnante di sostegno e così passava il tempo seduto da solo a far niente. A scuola ci stava fino alle 16,30 ma l’insegnante di sostegno veniva qualche volta. Le giornate erano terribilmente lunghe e noiose. Per non annoiarsi troppo, aveva imparato a disegnare cani. Quello che gli veniva meglio era Rex, proprio come il cane della serie televisiva. Rex era il suo preferito.
Ma il suo cane non si chiamava Rex, no.
All’ottavo compleanno, il padre, colto da un attacco di generosità, gli regalò un bastardino. L’aveva trovato al cantiere dove lavorava. Gli aveva ricordato un cagnolino che aveva avuto da piccolo e che era morto avvelenato. Erano stati i pastori ad avvelenarlo. Aveva amato tanto quel suo cane ed era stato felice in sua compagnia.
Quanto fu contento quando suo padre portò a casa il cucciolo. Gli sembrava il più bel cane del mondo anche meglio di Rex. Suo padre quasi glielo buttò sulle braccia e gli disse: “Ecco quel cazzo che vuoi”.
Pensò che “cazzo” fosse il nome del cane e così lo chiamò. Lo si sentiva fischiare per le strade del paese: “Cazzo, vieni qui. Cazzo andiamo a casa”.
Allora, fu preso per scemo, davvero.
Andava in giro e diceva: “Guardate, questo è Cazzo che mi ha regalato mio padre”.
Finì che lo soprannominarono “Cazzo del padre”. E questo si tenne fino al termine dei suoi giorni che furono esageratamente brevi perché finì investito da un camion mentre correva felice con l’unico vero amico della sua vita.